Il populismo gesuita by Loris Zanatta
autore:Loris Zanatta
La lingua: ita
Format: epub
Tags: i Robinson / Letture
editore: Editori Laterza
pubblicato: 2020-08-02T22:00:00+00:00
Povero comunismo
La luce dopo le tenebre: era quel che il castrismo promise, quel che i “populismi gesuiti” additano al popolo. Niente più conflitti politici né piaghe sociali, ingiustizie e diseguaglianze. Il Regno trionferà. Ma che Regno? Castro aveva idee chiare: non c’è comunismo senza ricchezza, disse. Emancipato dal dominio imperiale, il cubano sarà il “popolo più ricco al mondo”, vivrà “nella società dell’abbondanza”. Eppure, come quella peronista, anche l’utopia modernizzatrice castrista si tramutò in ode pauperista.
Castro era un tipico anticapitalista cattolico. Il suo modello sociale e morale era il “ceto contadino forte e sano” dell’Oriente cubano. Fine dello Stato era estirpare “l’egoismo” borghese, “maledizione di Dio”, e diffondere tra i cubani le virtù della vita contadina. L’Antico Testamento, spiegò, era la sua guida economica. “Libertà d’impresa, garanzie agli investimenti, legge dell’offerta e della domanda” erano “stupidaggini” inutili a risolvere i problemi dell’isola.
All’inizio, la terra promessa gli parve a portata di mano. Pretese sacrifici, promise abbondanza: produrremo più latte dell’Olanda, più agrumi di Israele, miglior formaggio della Francia83; “Sono sicuro che in pochi anni eleveremo il nostro tenore di vita sopra quello degli Stati Uniti”. La sua fede era sconfinata. Perché no, se “l’economia la capiscono anche i bambini”? Sul modello non aveva dubbi: come i gesuiti antichi odiava la proprietà privata, incunabolo dell’egoismo; quella statale, spiegò, “è la forma più elevata di produzione”.
Impose lavoro “volontario”, incentivi “morali”, disciplina “marziale”, pianificazione “razionale”, razionamento alimentare. Ora “non comanderà più il denaro, ma la virtù”, annunciò. E promise: “Man mano che cresceremo daremo al popolo la sua parte”. Ma gli anni passavano, le carenze crescevano, la parte per il popolo non compariva. E quanto più s’anneriva l’orizzonte, tanto più radioso lo descriveva, tanto più scaricava la sua ira sui “peccatori” di turno. Nel 1968 eliminò d’un tratto bar e barbieri, ambulanti e taxisti, ogni piccola attività privata: “Asociali, lumpen”! La vita si fece ancor più grama, cibo e medicine ancor più rari. Solo il mercato nero prosperava. Fu epoca di censura e violenza, repressione e fughe84.
Nel 1970 caddero le illusioni: la storica zafra, il più grande raccolto di zucchero della storia, su cui da anni Castro aveva investito tutte le risorse del paese, fallì. Faremo come i popoli “ispirati da fanatismo religioso”, sarà la nostra Piramide di Cheope, aveva tuonato. Niente da fare, un buco nell’acqua. Padre Cardenal vide L’Avana buia e mesta, gli scaffali vuoti, pochi abiti e tutti uguali. Gioì: qui regna la povertà evangelica; speriamo non giunga mai il benessere a corromperla. Un auspicio, una sentenza. Castro si presentò a Mosca cappello in mano: da allora campò sulle spalle dei sovietici; la proverbiale inefficienza del sistema cubano fu mascherata da enormi sovvenzioni85. Fu tale “droga” a consentirgli di esibire al mondo “progressi sociali” che mai l’economia del paese si sarebbe potuta permettere. Ma la terra promessa rimase tale, una promessa incompiuta. Per molti, la rivoluzione finì allora e iniziò il regime: il “cristianesimo delle origini” era diventato Chiesa; suo fine era perpetuarsi al potere.
Mancato l’appuntamento con lo sviluppo, l’orizzonte di Castro mutò: addio modernità, corruttrice e immorale, viva la santa povertà, pura e dignitosa.
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